da Dr.ssa Ilaria Bellavia
La resilienza, questa misteriosa capacità umana di non spezzarsi di fronte alle avversità, è divenuta una parola chiave nel discorso sulla salute mentale. Ben oltre la semplice “resistenza”, la psicoanalisi e le neuroscienze ci offrono una prospettiva più profonda: la resilienza non è un tratto innato e statico, ma un processo dinamico e complesso di riorganizzazione del Sé in risposta al trauma.
Il Trauma: Non Solo l’Evento, ma la Rottura del Senso
In un’ottica psicodinamica, il trauma non è definito unicamente dalla gravità oggettiva dell’evento (lutto, perdita, abuso, ecc.), ma dalla sua capacità di sovraccaricare e frammentare l’apparato psichico (Freud, 1920). Il trauma irrompe nella continuità dell’esperienza, lasciando l’individuo con un senso di impotenza radicale e di rottura nella propria “storia narrativa” (Fonagy, Gergely, Jurist & Target, 2002).
La resilienza, in questo contesto, emerge come il faticoso tentativo del Sé di ristrutturare i frammenti lasciati dal trauma. Non si tratta di tornare al punto di partenza, bensì di un percorso di crescita post-traumatica (Tedeschi & Calhoun, 1996), dove le ferite vengono integrate in una nuova, e spesso più profonda, comprensione di sé e del mondo. Questo processo richiede tempo e implica una dolorosa riorganizzazione interna.
I Meccanismi Dinamici della Riorganizzazione
La psicoterapia psicoanalitica si concentra sull’indagine dei meccanismi che permettono (o ostacolano) questa riorganizzazione.
1. La Funzione Riflessiva e la Mentalizzazione
Un elemento cruciale, come sottolineato da Peter Fonagy e colleghi, è la mentalizzazione, ovvero la capacità di comprendere il comportamento proprio e altrui in termini di stati mentali (pensieri, emozioni, intenzioni). Il trauma spesso danneggia questa funzione, portando l’individuo a vivere stati interni ed esterni come realtà immediate e non negoziabili. Lo sviluppo della resilienza è strettamente legato al recupero e al potenziamento della mentalizzazione: è la capacità di “pensare di pensare” i propri stati emotivi dolorosi che permette di gestirli e integrarli, anziché esserne sopraffatti.
2. La Trasformazione dell’Errore e dell’Avversità
Un elemento centrale della crescita e della resilienza è la capacità di sfruttare gli errori e le avversità per la crescita, un tema rilevante anche per una progettualità formativa (come hai evidenziato nel tuo interesse per il curricolo). In analisi, l’errore (un acting out, una resistenza) non è un fallimento, ma un dato grezzo che, se esplorato all’interno della relazione proficua con l’analista, può rivelare aspetti inediti e fondamentali della propria organizzazione psichica (Bion, 1962). La resilienza si costruisce proprio quando l’errore o la caduta vengono convertiti da fonte di vergogna a opportunità di apprendimento e di sviluppo di nuove strategie di adattamento (Seligman, 2011).
3. La Relazione Terapeutica come Laboratorio
La resilienza non si sviluppa nel vuoto, ma è profondamente interpersonale. L’analista fornisce quello che Winnicottchiamerebbe un “ambiente di holding” (Winnicott, 1960), uno spazio sicuro e prevedibile che permette al paziente di “rischiare” di sentire il dolore e la frammentazione senza il timore di crollare.
- Rispettare i Ritmi: La terapia deve rispettare i ritmi di apprendimento dell’individuo. La riorganizzazione del Sé è un processo lento, che non può essere forzato, ma accompagnato con una pazienza empatica e con strategie metodologiche inclusive che si adattino alla vulnerabilità del paziente.
- Sicurezza e Fiducia: Attraverso la relazione, il paziente può gradualmente re-internalizzare la figura dell’analista come un oggetto interno sicuro, ristabilendo quella fiducia fondamentale (Erikson, 1950) che il trauma aveva infranto.
Conclusione: La Resilienza è un Lavoro Psichico
La resilienza, dunque, è il risultato di un profondo lavoro psichico che si svolge nell’intimità del Sé e nel campo relazionale della terapia. È la capacità di dare senso al non senso del trauma, di integrare il dolore e di emergere non indenni, ma trasformati.
Comprendere la resilienza in chiave psicoanalitica significa spostare l’attenzione dalla mera “forza di volontà” alla complessità della vita interna. Significa riconoscere che è nell’esplorazione onesta dei propri meccanismi difensivi e nella risignificazione delle proprie ferite, mediate da una relazione terapeutica sicura e trasformativa, che l’individuo ritrova la capacità di progettare il proprio futuro.
da Dr.ssa Ilaria Bellavia
Hai mai avuto la sensazione di ripetere lo stesso copione relazionale? Ti ritrovi attratto da partner che ti feriscono in modi familiari, o sperimenti un blocco emotivo che sabota ogni potenziale relazione felice?
Potresti non crederci, ma Sigmund Freud aveva già decodificato questo enigma oltre un secolo fa.
Il “Modello Stereotipo” di Freud e la Ricerca d’Amore
Nel suo saggio sulla psicologia dell’amore (1915), Freud introduceva il concetto di uno “schema stereotipo” (cliché):
“È provato che ognuno, per effetto delle disposizioni innate e delle influenze subite nell’infanzia, ha elaborato una particolare modalità nel condurre la sua vita amorosa, cioè una specie di modello stereotipoche viene ripetuto.”
Cosa significa questo per te oggi?
Significa che dentro di te è impressa una sorta di matrice inconscia – plasmata dalle tue prime relazioni con le figure di attaccamento – che dirige ogni tua successiva scelta affettiva e il modo in cui vivi l’intimità.
- Quando ti innamori, non stai incontrando una persona totalmente nuova. Stai proiettando su di lei, in modo automatico e inconscio, le aspettative, i bisogni insoddisfatti e i modelli relazionali appresi in precedenza.
- Quando una relazione entra in crisi, spesso riemerge proprio quel “modello stereotipo”, portandoti a rivivere (e soffrire) gli stessi conflitti emotivi dell’infanzia.
Questo meccanismo, che in terapia chiamiamo Transfert, non è un errore della tua volontà. È il lavoro dell’inconscio che cerca, incessantemente, di risolvere vecchi traumi attraverso nuove persone.
Dalla Teoria all’Evidenza: La Scienza della Ripetizione
La Psicoterapia Psicoanalitica contemporanea non si affida solo all’intuizione freudiana. Le neuroscienze e la ricerca sull’attaccamento (come l’Infant Research) hanno ampiamente convalidato la sua intuizione centrale:
- Il Circuito della Ripetizione: Quello che Freud chiamava “modello stereotipo”, oggi è studiato come l’influenza dei Modelli Operativi Interni (MOI) o delle memorie procedurali. Sono schemi di relazione appresi che vengono eseguiti dal cervello in modo automatico e involontario.
- La Terapia è Riprogrammazione: Lavorare in profondità non significa solo capire il tuo passato. Significa utilizzare la relazione proficua con il terapeuta (il setting analitico) per creare una nuova esperienza emotiva correttiva. Questa nuova esperienza è scientificamente provata per consentire il riconsolidamento delle vecchie memorie dolorose, riscrivendo attivamente lo “schema stereotipo” freudiano.
Non devi più essere schiavo di un copione già scritto. La tua progettualità nel curricolo disciplinare della tua vita sentimentale merita di essere basata sulla consapevolezza, non sulla coercizione inconscia.
Come Iniziare a Riscrivere il Tuo Modello
La Psicoterapia Psicoanalitica è l’approccio ideale per affrontare questi blocchi strutturali. Ti offro un percorso rigoroso e basato sull’evidenza per:
- Identificare il Tuo Schema: Usiamo strumenti differenziati per osservare dinamiche relazionali e il transfertcome una lente d’ingrandimento per portare alla luce il tuo “modello stereotipo” in azione.
- Rispettare i Tuoi Tempi di Cambiamento: Rispettando i tuoi ritmi d’apprendimento emotivo, lavoriamo affinché il cambiamento sia solido e duraturo, e non una soluzione temporanea.
- Trasformare l’Errore in Crescita: I conflitti che emergono nella relazione terapeutica, o quelli che riporti dalle tue relazioni esterne, sono preziosi. Li sfruttiamo come errori per la crescita per capire dove il tuo vecchio modello ti sta intrappolando.
Smetti di chiederti perché succede sempre a te. Inizia a capire come funziona la tua mente per scegliere in modo più libero.
da Dr.ssa Ilaria Bellavia
Il panorama della sofferenza psicologica contemporanea si presenta sempre più variegato, ma un filo conduttore ricorrente emerge con chiarezza: la crisi di senso. In un’epoca caratterizzata da rapidi mutamenti sociali, tecnologici e valoriali, molti individui si ritrovano ad affrontare un profondo senso di vuoto interiore, di disorientamento esistenziale e la dolorosa percezione che la propria vita manchi di una direzione autentica e significativa.
Questo specifico disagio, pur non essendo una categoria diagnostica a sé stante, funge da potente attrattore per l’intervento psicoterapeutico, in particolare quello di orientamento psicoanalitico, poiché tocca corde profonde e universali dell’esperienza umana.
La Natura del Disagio: Al di là del Sintomo Apparente
La crisi di senso raramente si manifesta in modo puro. Spesso si maschera dietro sintomi più riconoscibili e socialmente accettati, quali:
- Ansia e Stress Cronico: L’iperattività e la costante preoccupazione possono essere tentativi inconsci di riempire il vuoto interiore o di evitare la riflessione esistenziale.
- Insoddisfazione Relazionale: Difficoltà a stabilire legami profondi o la sensazione di solitudine anche in compagnia, sintomi di una ricerca irrisolta di significato nel rapporto con l’altro.
- Sindrome da Burnout o Procrastinazione: La perdita di motivazione e l’incapacità di impegnarsi in progetti a lungo termine, specchio di una mancanza di fede nel valore intrinseco delle proprie azioni.
- Dipendenze Comportamentali: L’uso compulsivo di social media, lavoro, binge-watching o acquisti, come meccanismi difensivi per anestetizzare l’angoscia del vuoto.
Il paziente che approda alla psicoterapia non chiede esplicitamente “Voglio trovare il senso della vita”, ma più spesso esprime un malessere confuso: “Non sono felice, anche se ho tutto”; “Sento che mi manca qualcosa, ma non so cosa”; “Non mi riconosco più nella vita che faccio”. Queste affermazioni sono la porta d’accesso per esplorare la dimensione della crisi di senso.
La Risposta Psicoanalitica: Dalla Superficie alla Profondità
La psicoanalisi offre un framework particolarmente adatto per affrontare la crisi di senso, superando la semplice gestione sintomatica. Il suo valore risiede nella capacità di:
- Esplorare l’Inconscio e i Conflitti Non Risolti: La perdita di senso non è solo un problema filosofico, ma affonda le radici nei conflitti infantili e nelle ferite narcisistiche. La psicoanalisi indaga come le prime relazioni e i modelli genitoriali abbiano influenzato la capacità dell’individuo di dare valore a sé stesso e alle proprie esperienze.
- Riscoprire il Desiderio Autentico: Il “senso” non è qualcosa da trovare all’esterno, ma qualcosa da costruire dall’interno. Il lavoro analitico aiuta il paziente a liberarsi dalle aspettative esterne (sociali, familiari) che hanno soffocato il suo desiderio e la sua vocazione più autentica. Il senso si ripristina quando l’individuo si ricollega al proprio Sé più profondo e alle sue pulsioni vitali.
- Elaborare il Lutto e l’Angoscia di Finitudine: La crisi di senso è spesso collegata all’angoscia esistenziale legata al tempo che scorre, alla perdita e alla finitudine. La stanza d’analisi diventa un luogo sicuro dove il paziente può affrontare il lutto delle aspettative non realizzate e accettare i limiti dell’esistenza, trasformando l’angoscia in responsabilità e libertà.
- Dare Significato alla Relazione Terapeutica: La relazione transferale stessa è un potente strumento. La fiducia, l’ascolto non giudicante e la stabilità del setting offrono un nuovo modello relazionale. Attraverso l’interpretazione del transfert, il paziente può comprendere come le sue vecchie dinamiche relazionali abbiano contribuito a svuotare di significato il suo mondo attuale, per poi re-investire emotivamente nella propria vita con maggiore consapevolezza.
Conclusione: L’Invito all’Esplorazione
La crisi di senso non è un fallimento, ma un invito cruciale al cambiamento. È la spinta che costringe l’individuo a fermarsi e a interrogarsi sull’autenticità del proprio percorso.
La psicoterapia psicoanalitica si pone non come dispensatrice di ricette, ma come facilitatrice di un viaggio interiore profondo. Per coloro che avvertono il peso di un’esistenza priva di tensione e di significato, l’analisi offre lo spazio e gli strumenti per tessere una nuova narrazione di sé, in cui il senso non è un dono ricevuto, ma il frutto coraggioso di una riscoperta personale e inconscia.
da Dr.ssa Ilaria Bellavia
Viviamo in un’epoca di radicale transizione, dove i confini tra il sé e il mondo esterno sono sempre più sfumati. La realtà virtuale, i social media e l’intelligenza artificiale (IA) non sono più semplici strumenti, ma diventano estensioni della nostra psiche, alterando il modo in cui costruiamo l’identità, le relazioni e la percezione della realtà. La psicoanalisi, con i suoi concetti fondamentali di Io, Es e Super-Io, ha molto da dire su questo fenomeno emergente.
L’algoritmo come Super-Io digitale
Nella teoria freudiana, il Super-Io rappresenta la nostra coscienza morale, l’istanza che interiorizza le norme e le aspettative sociali. Oggi, gli algoritmi dei social media e delle piattaforme di streaming fungono da un nuovo tipo di Super-Io. Essi ci propongono contenuti “su misura”, guidando i nostri gusti, le nostre scelte e persino le nostre opinioni. Questo meccanismo, apparentemente innocuo, può portare a una conferma ossessiva del sé, dove l’individuo non è più esposto a idee divergenti, ma vive in una eco-camera di rinforzo narcisistico. L’Io, invece di confrontarsi con la complessità del mondo esterno, si ritira in un ambiente rassicurante e prevedibile, impoverendo la sua capacità di crescita e di tolleranza della frustrazione.
La realtà virtuale e la dissoluzione dell’Io
La realtà virtuale (VR) offre un’esperienza sensoriale e immersiva che sfida la distinzione tra il reale e l’immaginario. Se da un lato ciò apre possibilità creative e terapeutiche, dall’altro solleva questioni complesse per la psicoanalisi. Il nostro senso di identità è profondamente legato al nostro corpo e al suo rapporto con lo spazio fisico.
Quando l’individuo può “abbandonare” il proprio corpo e assumere avatar diversi, l’integrità dell’Io può essere messa alla prova. L’identificazione proiettiva, un meccanismo difensivo in cui parti del sé vengono attribuite a un altro, può assumere nuove forme. L’utente può proiettare parti di sé indesiderate in un avatar, esplorando identità multiple e spesso idealizzate, ma rischiando di frammentare il proprio senso del sé e di perdere il contatto con la realtà corporea.
La tecnologia come oggetto transizionale
Donald Winnicott, un influente psicoanalista, ha introdotto il concetto di oggetto transizionale, un oggetto (come una coperta o un orsetto di peluche) che aiuta il bambino a fare il passaggio dall’onnipotenza soggettiva alla realtà oggettiva. Oggi, smartphone e dispositivi digitali possono assumere una funzione simile, ma con una connotazione più ambivalente. Sono oggetti che ci connettono al mondo, ci rassicurano e riempiono i vuoti di solitudine. Tuttavia, a differenza dell’oggetto transizionale che viene abbandonato con la crescita, la dipendenza tecnologica tende a persistere, diventando una sorta di oggetto transizionale eterno che impedisce la piena maturazione e la capacità di tollerare l’assenza e la solitudine.
Conclusioni
La psicoanalisi deve confrontarsi con queste nuove sfide. Non si tratta di demonizzare la tecnologia, ma di comprendere come essa stia plasmando il nostro mondo interno. La terapia, in questo contesto, deve aiutare l’individuo a distinguere tra il virtuale e il reale, a riprendere contatto con il proprio corpo e a sviluppare un Super-Io che non sia solo l’eco di un algoritmo. La cura analitica può diventare uno spazio di autenticità in cui il paziente, lontano dalla maschera dei social media e dalla facile gratificazione della rete, può esplorare le profondità del proprio inconscio e ricostruire un Io più solido e integrato.
da Dr.ssa Ilaria Bellavia
Quando il Corpo Parla ciò che la Mente Tace: Una Prospettiva Psicoanalitica sui Disturbi Psicosomatici
Nel labirinto complesso dell’esperienza umana, a volte il corpo diventa il messaggero silenzioso di un disagio che la mente non riesce a elaborare. I disturbi psicosomatici, un fenomeno antico quanto l’uomo stesso, rappresentano proprio questo: manifestazioni fisiche di conflitti psichici, emozioni represse e traumi non risolti. Non si tratta di “malattie immaginarie” o di una finzione della mente, ma di un grido d’aiuto del corpo che merita ascolto e comprensione profonda.
Il Legame Inconscio tra Mente e Corpo
La psicoanalisi, fin dalle sue origini con Freud, ha riconosciuto l’inscindibile unità mente-corpo. Sebbene il linguaggio scientifico moderno abbia approfondito la comprensione delle vie neurologiche e biochimiche di questa connessione, l’approccio psicodinamico offre una lente unica per esplorare il significato inconscio dietro il sintomo fisico.
Per il paziente psicosomatico, il corpo diventa un palcoscenico su cui vengono rappresentati drammi interiori. Ansia, rabbia, tristezza o paure, impossibilitate a trovare una via d’espressione verbale o simbolica, vengono “somatizzate”, trasformandosi in emicranie croniche, problemi gastrointestinali, dermatiti, disturbi cardiaci funzionali o dolori muscoloscheletrici inspiegabili. È come se il corpo, con la sua concretezza, si assumesse il compito di comunicare ciò che la psiche non può o non vuole riconoscere.
La Funzione del Sintomo Psicosomatico
Da una prospettiva psicoanalitica, il sintomo psicosomatico non è mai casuale. Spesso emerge in periodi di stress intenso, di fronte a perdite significative, a cambiamenti di vita o quando le difese psichiche della persona sono sopraffatte. Può essere una modalità per:
- Evitare l’elaborazione emotiva: Il dolore fisico distoglie l’attenzione dal dolore psichico, offrendo una “soluzione” temporanea al conflitto interno.
- Comunicare un bisogno: Sebbene in modo distorto, il corpo può esprimere un bisogno di cura, attenzione o riconoscimento che non trova spazio nella relazione con l’altro.
- Simbolizzare un conflitto: Il tipo di sintomo può a volte riflettere inconsciamente la natura del conflitto. Ad esempio, problemi digestivi potrebbero legarsi a difficoltà nell’assimilare o “digerire” certe esperienze.
- Mantenere l’equilibrio psichico: In alcuni casi, il sintomo può fungere da valvola di sfogo per tensioni insostenibili, prevenendo un crollo psichico più grave.
Il Ruolo della Psicoterapia Psicoanalitica
La terapia psicoanalitica offre un percorso trasformativo per coloro che soffrono di disturbi psicosomatici. Non si limita a trattare il sintomo, ma mira a risalire alle sue radici profonde nell’inconscio. Attraverso l’esplorazione delle dinamiche relazionali precoci, dei traumi passati, dei meccanismi di difesa e delle emozioni represse, il paziente può iniziare a:
- Dare voce al disagio: Imparare a verbalizzare le emozioni e i conflitti, trasformando il linguaggio del corpo in linguaggio psichico.
- Integrare le diverse parti di sé: Ricucire la scissione tra mente e corpo, riconoscendo l’unità della propria esperienza.
- Sviluppare nuove strategie di coping: Affrontare lo stress e le sfide della vita in modi più adattivi, senza ricorrere alla somatizzazione.
- Comprendere il significato del sintomo: Decifrare il messaggio che il corpo sta cercando di comunicare, portando alla luce contenuti inconsci e favorendo una maggiore consapevolezza di sé.
Affrontare i disturbi psicosomatici è un viaggio che richiede coraggio e impegno, ma che può condurre a una maggiore integrazione tra mente e corpo, e a una vita più piena e autentica. Se il tuo corpo ti sta parlando, forse è tempo di ascoltare con l’aiuto di chi può guidarti in questo dialogo interiore.
da Dr.ssa Ilaria Bellavia
L’agorafobia, spesso descritta come la “paura degli spazi aperti” o dei luoghi affollati, è molto più di un semplice timore fisico. È una condizione complessa che affonda le sue radici nelle profondità della psiche umana, un sintomo che ci parla di un conflitto interiore. Vederla solo come una reazione a un luogo specifico è come guardare la punta di un iceberg. Per capirla veramente, dobbiamo immergerci nelle acque della psicodinamica.
La paura di perdere il controllo: un conflitto tra io e mondo esterno
La prospettiva psicodinamica, erede della tradizione freudiana, vede l’agorafobia come l’espressione di un’ansia profonda legata alla separazione e alla perdita di controllo. Non è il luogo a essere spaventoso in sé, ma la sensazione che in quel luogo, lontano da un ambiente protetto e sicuro, la persona possa perdere il controllo su se stessa.
Secondo Melanie Klein, l’ansia che si manifesta nell’agorafobia potrebbe essere collegata a un conflitto inconscio tra impulsi aggressivi e difese. L’individuo, temendo di non riuscire a contenere le proprie pulsioni distruttive, proietta questa paura all’esterno, sui luoghi. La sicurezza della casa o di una persona fidata (la “base sicura”) diventa l’unica barriera contro questa minaccia interna.
Un altro autore fondamentale è Donald Winnicott. La sua teoria del “falso sé” e dell’importanza di un ambiente di holding (un ambiente che “contiene” e supporta) ci offre una chiave di lettura preziosa. L’agorafobico potrebbe aver sviluppato un falso sé, ovvero una maschera che usa per adattarsi alle aspettative altrui, non avendo avuto la possibilità di sviluppare un vero sé autentico. La crisi agorafobica può scoppiare quando questo falso sé, debole e fragile, è messo alla prova in un ambiente dove non si sente “contenuto”. Il mondo esterno diventa un luogo insostenibile, percepito come un ambiente non sufficientemente accogliente o “holding”.
Il sintomo come linguaggio: cosa ci vuole dire l’agorafobia?
Il sintomo, in psicodinamica, non è mai fine a se stesso. È un linguaggio, un segnale che il nostro inconscio ci invia. L’agorafobia ci parla di:
- Conflitto tra dipendenza e autonomia: L’agorafobico può avere un forte bisogno di dipendenza, ma allo stesso tempo teme di essere abbandonato o di non essere in grado di funzionare in modo indipendente. L’ansia legata agli spazi aperti è la cristallizzazione di questo conflitto.
- Paura dell’abbandono: La sensazione di essere in un luogo vasto e indifferenziato può evocare una profonda angoscia di abbandono, riflettendo magari esperienze infantili di insicurezza o di mancato accudimento.
- Regressione: In momenti di forte stress, la persona può regredire a stati più primitivi dell’Io, dove l’ansia di separazione è predominante. Il rifugio nella propria casa è un modo per ricreare un utero simbolico, un luogo in cui ci si sente completamente protetti.
Il lavoro terapeutico, in quest’ottica, non si concentra sulla “cura” del sintomo in sé, ma sulla sua comprensione. L’obiettivo è esplorare le radici profonde dell’ansia, dando voce a ciò che non può essere detto apertamente. Attraverso l’analisi della relazione transferale (la relazione che si instaura tra paziente e terapeuta), l’individuo può rielaborare i conflitti irrisolti, ricostruendo un senso di sé più solido e meno dipendente da un ambiente esterno che “protegge”.
L’agorafobia è un grido silenzioso dell’anima, un invito a guardare al di là del sintomo per scoprire ciò che si nasconde nel profondo. Non è la paura di una piazza, ma la paura di ciò che quella piazza ci costringe a sentire di noi stessi: l’essere soli, vulnerabili e, in qualche modo, irrisolti. Riconoscerlo è il primo passo verso la liberazione.