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Parole chiave: vulnerabilità, psicoanalisi, narcisismo, ansia, depressione, trauma, cultura contemporanea, patologie emergenti.

Introduzione

Nel lavoro clinico quotidiano con i pazienti, il concetto di vulnerabilità torna ciclicamente come tema sotteso, come nodo di fondo che attraversa le diverse forme del disagio psichico. Se nella tradizione psicoanalitica classica il focus è stato posto prevalentemente sulla conflittualità intrapsichica e sulle dinamiche inconsce rimosse, negli ultimi decenni è emersa con forza la necessità di interrogarsi su come le configurazioni soggettive si formino e si modifichino in relazione a una cultura in rapida trasformazione, che sembra amplificare alcune fragilità strutturali della persona.

Questo articolo intende proporre una riflessione sul concetto di vulnerabilità, esplorandone il significato in ambito psicoanalitico e i suoi possibili agganci con le patologie attuali, con particolare attenzione alle forme di sofferenza che più frequentemente incontriamo nella clinica contemporanea: depressioni, disturbi d’ansia, disturbi narcisistici e post-traumatici.

Vulnerabilità: una definizione preliminare

Etimologicamente, il termine vulnerabilità deriva dal latino vulnerabilis, da vulnus, che significa ferita. La persona vulnerabile è dunque quella che può essere ferita, che è esposta al rischio di danno fisico o psichico. In ambito psicologico e psicoanalitico, la vulnerabilità può essere intesa come una condizione strutturale dell’essere umano, che fin dalla nascita si trova in uno stato di dipendenza radicale dall’altro.

Donald Winnicott, in particolare, ha ben descritto come il neonato sia assolutamente indifeso e affidato alle cure materne, dipendente dalla capacità della madre di offrirgli un ambiente sufficientemente buono (good enough mother) per proteggerlo dalle esperienze traumatiche precoci. La vulnerabilità dunque non è solo una condizione accidentale o patologica, ma una caratteristica intrinseca della condizione umana.

Tuttavia, le modalità con cui questa vulnerabilità viene riconosciuta, accolta e trasformata all’interno delle relazioni primarie — e successivamente nel contesto sociale e culturale — incidono profondamente sullo sviluppo psichico dell’individuo e sulla sua capacità di tollerare e integrare la propria fragilità.

Vulnerabilità e narcisismo: il paradosso della società contemporanea

Una delle questioni centrali nella riflessione psicoanalitica attuale riguarda il modo in cui la cultura contemporanea — caratterizzata da valori di efficienza, successo, visibilità e controllo — si rapporta al tema della vulnerabilità. In una società che esalta l’autonomia e la performance, l’esperienza della fragilità tende a essere rimossa, negata o patologizzata.

Dalla metà del Novecento in poi, diversi autori hanno evidenziato come le patologie narcisistiche abbiano progressivamente sostituito i classici conflitti edipici come fulcro della sofferenza psichica. Heinz Kohut, con la sua teoria dei disturbi narcisistici del Sé, ha messo in luce come il fallimento nel ricevere un rispecchiamento adeguato da parte dell’ambiente primario produca nel soggetto un nucleo fragile, esposto a oscillazioni tra grandiosità e sentimenti di vuoto e impotenza.

La vulnerabilità narcisistica si esprime oggi in forme cliniche molto diffuse: persone che oscillano tra l’idealizzazione di sé e il crollo depressivo, tra l’esibizione e la vergogna, tra l’ipercontrollo e il senso di fallimento. In queste configurazioni, la difficoltà sta proprio nel poter accedere e riconoscere la propria vulnerabilità profonda, che viene difesa attraverso maschere di competenza o strategie di evitamento.

Ansia e vulnerabilità: l’impossibilità di proteggersi dal rischio

Un’altra area di grande rilevanza clinica è rappresentata dai disturbi d’ansia. In una cultura che propone un’illusione di sicurezza e controllo totale, l’esperienza del limite, dell’incertezza e della perdita diventa particolarmente difficile da tollerare.

La psicoanalisi ha da sempre riconosciuto l’ansia come segnale di un conflitto inconscio, ma nel contesto attuale essa assume anche una valenza socio-culturale. Bauman parla di “società liquida”, dove le relazioni, i legami e i ruoli sono diventati instabili e precari. In questo scenario, la vulnerabilità esistenziale viene amplificata e trasformata in ansia generalizzata: paura di non essere all’altezza, di essere esclusi, di perdere il controllo.

Molti pazienti riportano sintomi di ansia diffusa, attacchi di panico o fobie sociali che riflettono la difficoltà a gestire la propria esposizione all’altro, al giudizio e alla possibilità di fallimento. Spesso, sotto la superficie sintomatica, si cela una fragilità narcisistica non riconosciuta e una scarsa capacità di mentalizzare le proprie emozioni.

Depressione e vulnerabilità: il dolore dell’esclusione

La depressione è un’altra espressione clinica in cui la vulnerabilità gioca un ruolo centrale. Al di là delle letture neurobiologiche e cognitive, la psicoanalisi ha sempre considerato la depressione come il risultato di un lutto non elaborato, di una perdita significativa che riattiva antiche ferite narcisistiche.

In molte forme depressive attuali, il sentimento prevalente è quello di esclusione, di non appartenenza, di inutilità. Viviamo in una cultura che premia la produttività e l’immagine, e chi sperimenta una battuta d’arresto — una malattia, una separazione, una crisi lavorativa — rischia di sentirsi scartato. La vulnerabilità personale, lungi dall’essere riconosciuta e accolta, viene vissuta come una colpa o un fallimento individuale.

Nella clinica depressiva contemporanea, il lavoro analitico consiste spesso nell’aiutare il paziente a riconoscere la propria fragilità senza viverla come una condanna, restituendo senso e valore alla dimensione del limite.

Trauma e vulnerabilità: ferite che non trovano parola

Infine, un altro importante campo di riflessione riguarda i disturbi post-traumatici, che nella clinica odierna si presentano con frequenza crescente, anche in forme complesse e cumulative. Il trauma, per definizione, è un evento che travolge le difese psichiche e lascia il soggetto in uno stato di impotenza radicale.

La vulnerabilità traumatica è quella che non ha potuto trovare un contenitore mentale e relazionale capace di elaborarla. Le conseguenze sono spesso dissociative: parti della psiche restano scisse, escluse dalla narrazione personale, e si esprimono attraverso sintomi corporei, agiti o stati di vuoto.

Il lavoro psicoanalitico con i pazienti traumatizzati richiede una grande attenzione alla vulnerabilità originaria e alla costruzione graduale di uno spazio sicuro in cui il trauma possa essere riconosciuto e simbolizzato. Come sottolinea Ferenczi, è solo nella relazione terapeutica autentica che le ferite antiche possono trovare parola e senso.

Conclusioni: risignificare la vulnerabilità

Se la cultura contemporanea tende a negare o patologizzare la vulnerabilità, il compito della psicoanalisi è invece quello di riconoscerla come dimensione costitutiva dell’essere umano e come occasione di crescita soggettiva. Essere vulnerabili significa poter essere toccati dall’altro, essere esposti al dolore, ma anche alla relazione, al cambiamento, alla trasformazione.

Nel lavoro terapeutico, aiutare i pazienti a riconoscere, tollerare e integrare la propria vulnerabilità rappresenta una via possibile per uscire dalle rigidità difensive e dalle sofferenze patologiche. È solo attraverso l’accettazione dei propri limiti e fragilità che si può accedere a una soggettività più autentica, capace di relazioni profonde e significative.

In un’epoca che predica il controllo e la perfezione, la vulnerabilità resta un atto rivoluzionario. E forse, come scrive Winnicott, “è nella capacità di stare con il proprio non sapere che risiede la più alta forma di salute mentale”.

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